Sull’Eurostar da Firenze a Milano

Era molto alta, almeno un metro e novanta.
Abito nero attillato di cotone, maniche lunghe. Capelli scuri e folti, che scendevano ai lati del viso, sulle spalle.
Veniva nella mia direzione, con in mano il biglietto, una borsa e un giubbino di jeans. Non c’era ragione che si muovesse dalla testa, verso la coda del treno.
Partito da Firenze, in orario, l’Eurostar aveva fatto una sosta a Bologna.
Tra non molto avrebbe terminato la sua corsa a Milano, in Stazione Centrale.
Erano passate da poco le 20.30, e ricordo, nel buio della notte, il cartello illuminato di Codogno.
Perché solo allora si era incamminata, alta, nera, con i capelli scesi sulle spalle, verso la coda del treno? Mi sfiora. Continua a camminare, leggera. Si ferma.
Ritorna indietro e chinandosi leggermente mi chiede, indicando con il mento i posti liberi davanti a me: libero?
Un brivido.
Avevo desiderato che si fermasse, e si sedesse di fronte a me. Per curiosità o che ne so... Ma ora ho paura. Le osservo i piedi, sotto il tavolo che divide i quattro sedili fronteggianti. Sono grandi, con scarpe nere di cuoio lucido.
Sorrido. Mi viene da pensare a un’antica fiaba europea, dove la morte ha consumato un carretto intero di scarpe, solo per raggiungere il cavaliere che le sfuggiva, da secoli e secoli.
Cerco di guardarla in viso, aspettando di essere sicuro che non mi stia guardando. Le avrei dato meno di trent’anni, da lontano. Adesso, seduta di fronte a me, vedo distintamente la sua pelle pallida, quasi gialla, poco elastica: aderisce al viso in modo imperfetto, modellata con abbondanza sull’impalcatura delle mandibole.
Durante una di queste incursioni visive, la vedo sorridere guardando lontano, oltre l’orizzonte dello scompartimento. I nostri occhi s’incontrano, per un istante.
Ma non avverto la voglia di parlare o di chiedere qualcosa. Nessuno la chiama sul cellulare. Sembra che nessuno la stia aspettando.
All’arrivo, la borsetta cade sul pavimento dello scompartimento: cascano agendina, rossetto e bustina del make up.
Il treno si ferma sotto la cupola ferrosa della Stazione Centrale. Mi alzo e guardo verso di lei, per salutarla. Ma lei è impegnata a raccogliere gli oggetti caduti. Non aspetto, risucchiato dalla fila delle persone in discesa. Nella casualità delle code in uscita, mi supera di lato. Adesso procede alta, qualche passo davanti a me, sulla destra. Mi precede sulla banchina del binario d’arrivo, svettando su tutti i passeggeri.
Scende la scalinata dove da piccolo correvo incontro al nonno ferroviere, che veniva da Novara a trovare sua figlia e il nipotino Stefano. C’erano ancora le locomotive a vapore: ricordo gli sbuffi bianchi di fumo, come nei quadri di Monet, lontani, all’arrivo del treno, sopra la locomotiva. E da vicino, sotto le ruote in frenata.
Lo schermo del passato mi ha distratto. L’ho persa. La cerco tra la folla. Eccola.
E’ sempre più lontana: sta uscendo nell’atrio della Stazione.
Prenderà un taxi o la metropolitana? Punta decisa verso le viscere del metro.
Resto in superficie. Ho l’auto parcheggiata qui vicino. Mi piace immaginare che una volta scesa sottoterra, in una stazione affollata, saprà scomparire nel nulla, senza lasciare di sé, alcuna traccia.

L’uomo dal doppio naso

Evviva!
Ho due nasi!
Un naso per annusare la merda e uno per inspirare l’incenso.
Un naso per riconoscere tutti i profumi: canforacei, eterei, floreali, mentati, muschiati, pungenti, putridi, terrosi… Anche se non so distillarli. Come mi piacerebbe farlo!
Se c’è uno che invidio è Serge Lutens: un gran “naso”, senza essere bipolare…
Solo un francese ce la poteva fare, dopo Proust, a chiamare un profumo di radici, legni, ricordi e madeleines: “Le Participe passé”.
Sarà che noi - nel Nord d’Italia - non riusciamo, come fanno al Sud, a distanziare il tempo nel tempo, usando il passato remoto: feci, fui, andai, scrissi, pregai…
Per noi è ancora tutto dannatamente presente, nell’istante unico della vita che stiamo vivendo.
Come un profumo che sa di legno e radici: ho fatto, sono stato, sono andato, ho scritto, ho pregato.
E’ tutto troppo maledettamente vicino, ancora, nella nostra anima, nel nostro cervello, nel nostro sciagurato presente. Segnato oggi anche da questo ospite indesiderato, che non voglio neanche nominare.
Reincarnazione di tutti i nostri peccati e i nostri passati.
Per fortuna che ho due nasi…
Con uno sento l’odore maleodorante della carne morta, che si decompone, si disfa, si riempie di cagnotti piccoli e agitati.
Con l’altro percepisco il profumo celestiale del Paradiso, anche se con quale corpo non mi è dato sapere…
E annuso, annuso, annuso: timo, origano, dragoncello, rosmarino, prezzemolo, ambra.
E profumo dl cielo pulito in queste giornate senza traffico, senza auto, senza gente per strada.
Profumo di ossigeno, erbe, acqua sorgiva che trasuda dalla falda nella cava di Baggio. In silenzio.
Per la gioia di carpe, tinche, trote e di qualche smisurato pesce siluro: origine di tutte le origini, metafora delle nostre radici animali, amalgama di fango e putrefazioni.
Odore di pesce in decomposizione, di violette nascoste nell’ombra ai margini della sterrata, che nessuno più coglie. Profumo di vita che passa, e non si è mai estinta. Come un participio passato.
E’ ancora qui con noi, dentro di noi. Provocante con i suoi profumi.
I due nasi non dovrebbero mai confondersi, traslarsi uno nell’altro: la testa è una sola.
E’ lei che comanda, alla fine. Anche i ricordi. Riuscisse a mantenere separato questo insopportabile presente dall’immodificabile passato!
Per fortuna ho due nasi! Distinguo perfettamente i profumi di questo momento: alcol, amuchina, candeggina, cloroformio. E migliaia di morti, sepolti da soli, chissà dove e da chi.
Palpabili sono solo le loro ceneri. Senza odore.
Per quanto tempo? Chissà!
Forse meglio disperderle al vento e poi annusare…
Così li sentiremo ancora, dentro di noi, nei nostri polmoni malati, finalmente guariti.
Per quanto ancora?
Chissà…

 

Nota
Racconto inviato l’8 aprile 2020 al concorso "Disegni in cerca d'autore",
indetto da Scuola di scrittura Belleville-Typee, via Poerio 29, Milano,
ispirato al’omonimo disegno di Enrico Baj.